Repérages
cartografie sensibili

testi critici di
Arianna Bettarelli e Cinzia Cardinali

Oltre il monotematico ambiente della casa intorno al quale attualmente si annidano le molteplici declinazioni dell’abitare, l’archivio fotografico di Elena Corradi ridiscende al primordiale atto dello spostamento nello spazio come ricerca e orientamento, “bagaglio” istintivo e conservativo di possibilità di sosta temporanea. Nessun corpo-motore appare – se non i lasciti del suo agire e vivere. Ciò al contempo restituisce centralità al cono prospettico dell’artista: un’area delimitata dalla proiezione fisica ed emotiva che è sospesa tra riflessione razionale e tuffo istintivo nell’immanenza del fuori-dal-corpo, in “risposta” al dentro. Queste “stazioni” di viaggio ricompongono dunque l’autobiografia di chi è solito viaggiare e vivere tra diverse città – nazionali  e internazionali – e che pertanto si struttura su geo-grafie ottenute collegando punti di riferimento spaziali, invero delle ricognizioni territoriali. Da qui la cartografia che, piuttosto che incarnarsi in forme geografiche e in viste aeree dettagliate di nomi e simboli, si fa nel primo piano e, dal riflesso in pellicola, si apre alla corrispondenza interiore.

La varietà del personale archivio di Corradi, riaffermando il primitivo bisogno di ricerca e scoperta,  è un invito al cambiamento, ad un’apertura all’esterno che, di volta in volta, necessita di ricalcolare il percorso attraverso nuove mete, annotate in date e luoghi. Ai titoli-registrazione di coordinate spazio-temporali della sua personale carta geografica, si affianca poi un parallelo approccio analitico nell’apparente indifferenziata scelta dei soggetti, silenziosi, solitari ma mai soluti. Eppure, oggetti di vita quotidiana, architetture o porzioni spaziali mostrano dettagli che si spingono oltre la campionatura, aprendo così alla scoperta di narrazioni esistenziali: storie nelle storie tra un davanti e un dietro l’obiettivo fotografico. Nell’oltrepassare tale limite, questi scatti sono allora in realtà dei tentativi di prelievo di porzioni di spazio: volontà chiara nelle circoscritte inquadrature che spesso abbassano l’orizzonte – per taglio, angolatura o contrasto luminoso – fino a “catturare” anche il paesaggio. Da qui l’essenza dell’archivio che con la vista e la registrazione soddisfa gli altri nostalgici sensi convocandoli nella dimensione poetica.

Tale svolta rivela un’ulteriore caratteristica dell’archivio, il suo anacronismo. Diversamente da ciò che si può pensare, esso offre infatti già di per sé la possibilità di muoversi arbitrariamente sulla linea spazio-temporale, sebbene solitamente prevalga il metodo di catalogazione cronologica. Al contrario, la selezione dei “prelievi” fotografici di Corradi non segue necessariamente tale ordine e, in parallelo, il contenuto fotografico (le stazioni di viaggio), forte della cristallizzazione dello scatto, assume un’eterna fattezza che sembra non subire l’azione del tempo. Ecco manifestarsi l’essenza poetica dell’immagine il cui atto – come ebbe a dire G. Bachelard – “non ha passato, almeno non ha un passato recente, lungo il quale sia possibile seguire ciò che lo prepara, la sua epifania.”

Al contempo, la necessità di registrare risponde in Corradi ad un approccio razionale che, come mostra la foto scelta a copertina del suo archivio, “Todi, 2018”, si incarna in un metro lasciato pendere fra le dita in primo piano. Un tentativo questo di monumentalizzare l’azione del misurare, che nella ricerca dell’artista si esplica nei suoi molteplici significati. Le distanze e le durate di chi è solito spostarsi sono passibili di quel relativismo che sconfessa l’universalità del numero, ma al contempo, questa dispersiva condizione promuove di converso il ritorno alla misurazione come resistenza alla perdizione geografico-identitaria. La formazione antropologica dell’artista gioca in tal senso un ruolo centrale, così come anche un altro suo lavoro fotografico sul contesto abitativo “La maison qui m’enveloppe”, nato da una performance in cui Corradi avvolge stretto intorno al volto il filo con cui ha misurato precedentemente gli spazi della propria dimora: un tentativo anch’esso di ricognizione spaziale, ricalcolata a partire dal soggetto – la donna – relegato da sempre in quel contesto.

“Per me misurare significa anche misurarmi, riflettermi, capire.”

Ecco il significato altro di questo archivio. Se da un lato l’occhio è calcolatore primo delle possibilità del corpo da esso immediatamente avvertito, dall’altro è anche l’organo che informa la percezione e crea rispondenza emozionale tra il dentro e il fuori. E spesso è proprio l’interiorità a sorpassare la dominante posizione dell’occhio, muovendo essa stessa la regia dello scatto. Tale gioco si riconferma foto dopo foto e accresce d’intensità laddove il paradigma interno-esterno è evidente sin da subito a livello di spazialità, che spesso arrivano a sovrapporsi nella zona del limite, annullandolo. Un materasso posizionato presso le rovine di un’architettura a segnalare un  rifugio di fortuna, l’angolatura calda e spigolosa di un letto e quella di una scaletta di una piscina vuota, l’adagiarsi assolato di una sciarpa sul bracciolo di un divano e il medesimo e sinuoso andamento di un grande telo pubblicitario parzialmente staccatosi dalla sua struttura, la sequenza di lampade cinesi e quella delle stelline a led di un locale a Parigi e infine, la mano con il metro – ramificata al pari del lampione direzionale da incrocio stradale, introducono alla possibile intercambiabilità tra il dentro e il fuori. Nel suo ultimo saggio di recente uscita, E. Coccia afferma: “Abitiamo davvero solo le cose. Sono gli oggetti a ospitare il nostro corpo, i nostri gesti, ad attirare i nostri sguardi […] In casa tutti gli oggetti diventano soggetti.” Questo passaggio all’oggettivazione – in seguito “soggettivata” – è insita nel lavoro di Corradi. Se gli elementi da esterno trovano assonanza visiva e – a ben vedere – concettuale con quelli da interno è perché, come si diceva più sopra, il taglio, l’inquadratura e l’effetto luce sono volti ad inquadrare precipuamente l’oggetto della visione. Riaffermando dunque, di volta in volta, la “prelevabilità” di quest’ultimo, si rende ancor più evidente la capacità di prelievo della fotografia.

Si arriva così a non riconoscere più il dentro e il fuori: che sia il vetro pennellato di nero, o i finestroni in corsa di una metropolitana, è difficile immaginare da quale parte si trovi l’autrice degli scatti. La trasversalità spaziale invade ogni situazione e contesto ed è pronta a giocare in ambivalenza anche solo prendendo in considerazione le aree esterne: esiste allora un paradigma di dentro e fuori anche in ognuno dei suoi poli estremi? Di certo, lo spiraglio di luce che entra da una porta non chiusa ad illuminare una lampada – fonte luminosa degli interni, annuncia la dissolvenza del limite.

Alla libertà di traversata spaziale, si affianca poi l’arbitrio libero di selezione delle immagini a costituzione dell’archivio. Corradi non lavora per serie e utilizzando l’analogico, lo sviluppo postumo del rullino crea già di per sé uno scarto temporale ad alimentare l’anacronismo dell’intera raccolta. Per di più è la stessa artista a dichiarare che questo avviene spesso anche molto tempo dopo la fase di scatto. Pertanto la selezione richiede logiche di archiviazione alternative alle canoniche. A Corradi non interessa ricostruire un passato perduto, ma semmai affermare la “presentificazione” di ogni visione. Ecco perché la catalogazione si fonda su una scelta associativa del contenuto delle immagini, ridiscendendo nel tessuto inconscio e autoriflessivo in cui si nascondono e si rivelano – come nel mal d’archivio di J. Derrida – caratteri acquisiti e tracce mnestiche che possono seguire tracce di relais transgenerazionali e transindividuali ancor più complessi, linguistici, culturali, cifrabili e cifrati in generale.

Centro e periferia dunque, spaziale e umana, non esistono ma semmai convocano una nuova teoria della mescolanza che Corradi conferma scegliendo di condividere ulteriormente – e su richiesta – la propria collezione in formato cartolina.

Arianna Bettarelli

Seguendo come filo conduttore una delle accezioni del titolo della mostra, viene spontaneo il riferimento alla riflessione di Siegfried Kracauer secondo cui: “Grazie al potere di rilevazione della macchina, c’è nel fotografo qualcosa dell’esploratore; una curiosità insaziabile lo spinge a vagare per distese ancora ignote e cogliere le strane immagini in essa esistenti…”. Il percorso ri-cognitivo nel quale siamo statǝ finora guidatǝ dall’obiettivo “sensibile” di Corradi, ci conduce qui ad un punto di passaggio: l’occhio della fotocamera inquadra, pur senza fissarla come un fermo immagine, una porta-finestra, un limes, lirico diaframma interposto tra due dimensioni spaziali non ben definite, ambigue o forse volutamente lasciate all’interpretazione dell’osservatore, libero di collocare il proprio punto di vista al di qua o al di là della linea di confine, di sentirsi all’interno o all’esterno, finanche di permanere in uno stato d’animo ambivalente tra allontanamento e ingresso, tra la percezione di un’esperienza esaurita e di una possibilità a venire. Ciò a comunicare definitivamente nel limite la sua scomparsa e annunciare non soltanto la propria – dell’artista – ma anche l’altrui libertà.

Il tutto è ottenuto tramite quel senso di silenziosa immanenza rilevato più sopra, effetto questo raggiunto con mezzi espressivi estremamente controllati: il tracciamento rigoroso del reticolo ortogonale, che sembra conformarsi alle strutture compositive del Neoplasticismo, l’individuazione istintiva e al contempo studiatissima di quinte e cerniere spaziali, che scandiscono metricamente la ritmica dello sguardo; al tempo stesso la sonda fotografica, oltrepassando la griglia geometrica in primo piano, penetra nei riquadri e interstizi con un gioco luminescente di affioramenti e contrasti, fra effetti di condensazione e rifrazione capaci di tradurre visivamente il concetto sopra espresso di “liminalità” intesa – secondo la definizione di Bhabha – come “lo spazio dell’entre”.

 

Se consideriamo gli spazi di soglia come spazi di frontiera, indefiniti, instabili, mutevoli, immaginando di varcare la soglia evocata nell’immagine precedente, il repérage si focalizza su un luogo indeterminato, ancorché la presenza di oggetti riconducibili alla sfera domestica lo connoti come un ambiente d’interno. Anche qui l’immagine si imposta su coordinate essenziali, semplici superfici che nel loro intersecarsi formano un piano cartesiano interpolato da poche suppellettili, labili indizi di una presenza umana che in questo scatto, come in verità nell’intero corpus di opere in mostra, vive solo di allusioni, mai di esibizioni. Allora, se da un lato è forte l’effetto prelievo della realtà, dall’altro esso si fa delicato e leggero, come se la fotocamera l’avesse incluso sfiorandolo appena, tanto l’atmosfera si avverte rarefatta e impalpabile, con le forme e le superfici investite da effetti serici di luminosità diretta e da nuances diffuse. Più che mai evidente qui è la rara capacità della fotografa di far scaturire una misteriosa bellezza anche dalle composizioni più essenziali, in cui dominante è la dimensione del silenzio e dell’assenza.

La sequenza di scatti disposti a formare un dittico e un trittico rappresentano un esempio di ars combinatoria di matrice leibniziana, cui l’artista si attiene per indagare e scandagliare la complessità del reale, al fine di ottenere una specie di mappa, un catasto universale di concetti che permettano di cogliere l’architettura del visibile. Le immagini si direbbero combinate per assonanze sia compositive che narrative, ma i nessi che legano tra loro gli elementi del paesaggio sono lasciati al sistema percettivo di ogni singolo spettatore, chiamato a interpretarne l’intima polisemia.

Protagonista di questi “polittici” fotografici è la compresenza di ambiente naturale e artificiale, che dà luogo – per usare le parole di Gilles Clément nel suo Manifesto del Terzo Paesaggio – a una spazialità residuale, composta da “spazi indecisi, senza funzione, che sono difficili da nominare”, che si trovano “ai margini”. I residui sono ciò che rimane da “l’abbandono di una attività” e, in effetti, a trasparire chiaramente in ogni fotogramma è il senso di sospensione di ogni azione, di dismissione di forme materiali sia della civiltà industriale sia del mondo rurale, così come dell’antropizzazione del territorio, di cui sopravvivono solo spogli involucri di mattoni e cemento. Della presenza umana – invisibile, impercettibile, come se si tratti di luoghi sempre esistiti indipendentemente dall’uomo – rimangono solo scorie.

I frammenti di realtà ripresi da Corradi non concedono mai nulla alla spettacolarizzazione e al sensazionalismo, non inseguono estetismi esasperati né stereotipi oleografici; non copiando né emulando alcun cliché inflazionato, risultano davvero originali, unici per impostazione narrativa e peculiari per sintassi espressiva. Le fonti visive su cui l’autrice costruisce il suo vocabolario iconografico, spaziano dalle geometrie artificiali sedimentate nel paesaggio ad ambientazioni che ci appaiono familiari ma al contempo stranianti. Ovunque il suo obiettivo focalizzi oggetti, tracce o luoghi interstiziali, rivela aspetti della realtà che sfuggono al nostro sguardo cosciente, perché la sua ricerca si spinge sempre oltre il soggetto della fotografia.

Quando l’indagine dell’autrice investe i segni del paesaggio contemporaneo non è mai per rispondere a un’esigenza di documentazione topografica, tanto meno cronachistica. La sua capacità/volontà di trasfigurare il reale nelle sue composizioni comunica un senso di libertà che mira a trascendere la forma ed invita ciascuno di noi a rielaborare la visione in chiave filosofica. Relativamente al linguaggio fotografico e allo stesso modus operandi di Elena Corradi, vale più che mai la riflessione critica di Maurice Merleau-Ponty, che in merito allo statuto delle immagini parla della necessità di una «nuova ontologia», capace di superare il pregiudizio di stampo platonico secondo cui l’immagine sarebbe semplicemente la copia di un modello. Le immagini non si limitano a riprodurre un originale assente, ma lo ricreano conferendogli una nuova originalità, sancendo in tal modo la nascita di un oggetto completamente nuovo; l’immagine non costituisce dunque una replica, ma l’occasione di «Voir plus qu’on ne voit» o, come afferma Paul Klee, «rendere visibile ciò che non sempre lo è»

Cinzia Cardinali

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